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dirty laundry

I CONSUMATORI MODELLO ZARA

Prezzi convenienti, offerta in continuo cambiamento, prodotti molto simili a quelli appena visti sulle passerelle delle griffe di moda. E’ questa la ricetta di Zara, il brand di fast fashion che fa capo al gruppo spagnolo Inditex. Una ricetta in apparenza perfetta, che sembrerebbe consentire tanto all’azienda quanto ai clienti di ottenere un vantaggio.

Ma è davvero perfetta? Analizzando un po’ più a fondo il modello Zara, alcune criticità emergono. A cominciare dal servizio. Per contenere i costi, l’azienda riduce al minimo il personale di vendita, che, peraltro, si occupa prevalentemente della gestione della merce (riassortire le taglie, piegare i capi, sistemare i camerini e così via).

Ciò significa che, nei fatti, il consumatore è “abbandonato” a se stesso: quando non trova una taglia o vuole sapere se un certo capo è disponibile in un’altra versione di colore deve fare da sé. Lo stesso discorso vale quando si cercano informazioni sulla composizione o le modalità di manutenzione dei capi. In questi casi le uniche indicazioni sono quelle scritte sull’etichetta.

Certo, se si compera una t-shirt a 9.95 il tema della manutenzione non è centrale, ma lo può diventare nel caso in cui si opti per un cappotto da 149 euro. Vi è, poi, il tema del rapporto tra qualità e prezzo. Il prezzo è tendenzialmente basso ma la durata lascia spesso a desiderare, tanto che molti capi sono acquistati in una logica usa e getta: lo metto qualche volta e poi lo butto.

C’è da chiedersi se, in un momento di forte contenimento della spesa come quella attuale, un approccio di questo tipo sia ancora economicamente sostenibile per il consumatore. In altri termini ha ancora senso oggi comperare 4 golfini da 19.99 che dureranno pochi mesi quando, con gli stessi 80 euro, si può acquistare un golf che presumibilmente si potrà indossare per un paio di anni?

Infine vi è la questione dei processi produttivi, come ha denunciato Greenpeace con il rapporto Dirty Laudry e l’annessa campagna di boicottaggio. Secondo quanto rilevato dall’organizzazione ambientalista, durante la produzione Inditex utilizza alcune sostanze chimiche cancerogene. Sostanze che vengono rilasciate direttamente nell’ambiente limitrofo ai luoghi di produzione e, in piccole quantità, sono trattenute anche dagli abiti venduti nei negozi della catena.

Il gruppo, che in realtà non è l’unico coinvolto nella campagna di Greenpeace, ha dichiarato che, entro il 2020, eliminerà le sostanze tossiche dall’intera filiera produttiva. Ma il 2020 non è esattamente dopodomani e, intanto, i punti vendita continuano a essere riforniti di merce.

Fonte: Anna Zinola www.corriere.it

http://nuvola.corriere.it/2013/04/03/il-consumatore-abbandonato-nel-modello-vincente-di-zara/